Domenica 15 gennaio 2023, il Presidente nazionale del Meic Luigi
D’Andrea ha incontrato il gruppo di Parma e una delegazione dei gruppi dell’Emilia
Romagna (Bologna e Piacenza) per presentare il tema del prossimo Convegno
nazionale, ovvero la giustizia, con particolare attenzione alla giustizia riparativa.
Poiché alla riunione, che si è svolta nel pomeriggio presso
il Centro Pastorale Diocesano Anna Truffelli, erano presenti anche alcune
persone non appartenenti all’associazione, il Presidente ha esordito con una
breve presentazione del nostro Movimento.
“Il Meic è un dialogo tra fede e cultura in una logica di
condivisione” ha detto D’Andrea: “È una sfida che volentieri affrontiamo
coi nostri pochi pani e pochi pesci. Se ricordate bene la parabola, non c’è
scritto che è Gesù a moltiplicare direttamente i pani e i pesci, ma è il gesto
stesso del mettere in comune, compiuto dai tutti i presenti, a dare il via al
miracolo della moltiplicazione delle risorse.”
D’Andrea ha poi spiegato come il tema della giustizia
riparativa si innesta nel percorso compiuto dal Meic negli ultimi anni e nel
particolare momento storico che stiamo vivendo.
Anche se non sempre ce ne rendiamo conto, siamo immersi da
anni in una situazione senza precedenti: la crisi economica del 2007 è stata
forse più grave di quella del ’29, perché ha spostato l’asse dello sviluppo
globale, finora centrato sull’Europa, verso l’Asia, mutando equilibri durati
per secoli. E quando si pensava di essere quasi usciti dalla crisi economica, è
arrivata la pandemia.
Anch’essa ha causato, oltre ai problemi sanitari, problemi
economici e soprattutto una crisi sociale: tanto che già si parla di un “prima”
e un “dopo” la pandemia nel mondo del lavoro, della scuola, e persino nel
nostro modo di gestire le relazioni con gli altri.
Infine, è arrivata la guerra in Ucraina, a completare un
quadro già difficile da analizzare.
Per questo, il Meic ha deciso di ripartire dalle categorie
fondamentali per l’interpretazione della realtà e, in particolare, sta cercando
di ragionare sui fondamenti del nostro stare insieme.
Abbiamo iniziato l’anno scorso con il tema della cura (di
sé, dell’altro e del creato), che è stato e sarà al centro delle Settimane
teologiche di Camaldoli, e ci stiamo occupando ora del tema della giustizia.
Anche la giustizia, infatti, è un elemento fondamentale per
la relazione, perché ci permette di basare su criteri non arbitrari la nostra
convivenza civile.
La giustizia, come la cura, ha vari livelli, e può essere
statica o dinamica.
Statico, ad esempio, è il principio “A ciascuno il suo”,
noto e praticato fin dall’antichità. Dinamica, invece, è la giustizia quando
viene declinata nell’ambito delle relazioni sociali e contribuisce così a
strutturare il nostro rapporto con il male.
Riflettere sulla giustizia significa anzitutto comprendere
che bene e male sono inestricabilmente collegati nella vita individuale e
collettiva.
Sono come il grano e la zizzania della parabola evangelica.
Ciò non significa che siano la stessa cosa, ma che nella concretezza della vita
spesso siano difficili da separare.
Chi prova a separarle ad ogni costo finisce con cercare dei
capri espiatori, a cui dare la colpa di un malessere altrimenti difficile da
spiegare, e immagina la giustizia come un modo per gestire la convivenza tra
nemici. Anche la politica diventa allora uno scontro tra nemici; ma questa
logica è in contraddizione sia con l’ordine democratico sia con l’esperienza
evangelica.
In secondo luogo, riflettere sulla giustizia significa
essere consapevoli che nella maggior parte dei casi essa consiste nel curare il
male con altro male. E per quanto questo male sia accuratamente dosato per
essere commisurato alla colpa, non è comunque un bene.
Anche la guerra, in particolare quella fatta per legittima
difesa rientra in questa logica: per quanto controllata e gestita, per quanto
proporzionata all’offesa, resta sempre un male; ma nell’immediato, è difficile
trovare qualcosa di diverso da contrapporle.
Infine, riflettere sulla giustizia significa chiedersi se e
come è possibile provare a vincere il male con il bene.
Non è un principio così utopistico: lo mettiamo già in
pratica ogni giorno per disinnescare i piccoli conflitti con amici e
famigliari; ma è presente anche nella nostra Costituzione, quando dice che le
pene devono tendere alla rieducazione e al reinserimento del colpevole.
In quel verbo tendere, infatti, c’è uno sforzo palese che riguarda tutti
i soggetti coinvolti: il reo, la vittima, l’intera società.
Ed è un principio presente anche nella liturgia: all’inizio
della messa, quando noi confessiamo i nostri peccati non solo a Dio, ma anche alla
comunità e con entrambi desideriamo riconciliarci.
È facile, umano, pensare di eliminare il male eliminando –
talvolta fisicamente – il colpevole. Eppure, più la violenza commessa è grande,
più appare chiaro che, a un certo punto, non è più possibile rispondere con
altrettanta violenza ed occorre tentare strade nuove.
Emblematico è l’episodio evangelico dell’adultera: secondo
la legge del tempo, la donna è certamente colpevole, ma Gesù, con la sua
risposta, costringe scribi e farisei a scoprire che anche in loro, non solo in
lei, abita il male; e poi invita l’adultera a prendersi le sue responsabilità: non
è un percorso semplice né piacevole per nessuna delle parti, ma grazie ad esso,
il male commesso viene ridimensionato in prospettiva di un bene futuro, in
molti casi raggiungibile.
Non si può identificare totalmente una persona con una colpa
commessa in un determinato momento della sua vita, così come non si può
banalizzare il male. La riconciliazione e il perdono non si elargiscono con
leggerezza, ma si costruiscono con fatica sia da parte di chi ha agito sia da
parte di chi ha subito il male. Però, in questo percorso si nasconde una
possibilità di salvezza per il singolo e per la comunità. Perché le regole di
qualunque società, per quanto evolute e complesse, sono sempre convenzioni che
per funzionare devono basarsi su qualcosa che le trascende: non la paura di una
pena più o meno grave, ma il desiderio di vivere bene assieme agli altri,
l’esperienza umanissima della fraternità.
Cristina Musi